




Vito Campanelli espone in Italia e all'estero dal 1979, ed è presente in numerose collezioni private in Europa. Autodidatta, d'intensa e febbrile produzione, gioca sui contrasti, miscela regola e istinto, metodo e improvvisazione, disciplina e pulsione. Libero da qualsiasi etichetta dosa sapientemente armonie cromatiche, equilibri strutturali, calibrature materiche; dà vita a opere cariche di un lirismo intenso e sensuale, ma anche misterioso ed evocativo. Il suo percorso si evolve, nel tempo, alla continua ed estenuante ricerca della forma "disfatta" della bellezza. Le sue tele, difficili ed enigmatiche, offrono allo spettatore un viaggio emotivo coinvolgente e destabilizzante. Ogni sguardo che si posa su queste pennellate metabolizza una propria lettura; la diversità di ogni singolo approccio diventa, così, metafora della varietà e della complessità della vita stessa.
vitocampanelli.weebly.com
Since 1979 Vito Campanelli has been displaying both Internationally and in Italy. All over Europe his works are already part of several private and public collections. As a self-thought artist, with an extensive production, he prefers to play with contrasts such as rules and instinct, method and improvisation self-control and passion, ultimately he perceives himself label-free. By observing his works of art, you can certainly tell how he wisely measures the chromatic harmonies, the structural balance and how he calibrates all the materials. Over the years, his path keeps evolving, constantly seeking for a sort of "defeated" shape of the beauty. His enigmatic and at times tough paintings will offer you an emotional journey, yet compelling and destabilizing. Each glance at the brush strokes will be metabolised inside your own interpretation. The diversity into every single approach, will therefore becomes a metaphor of the variety and complexity of life itself.
VITO CAMPANELLI - OPUS
testo critico a cura di Gaetano Salerno
A poca distanza dalle due importanti e recenti personali di Mestre (Polveriera Francese di Forte Marghera nel 2024) e Venezia (Spazio Malvasia Gallery nel 2025), una nuova occasione per incontrare e conoscere, seguendo un nuovo progetto espositivo nato in sinergia con il critico d’arte Gaetano Salerno, il lavoro del pittore Vito Campanelli. Presenti per l’occasione di Noale una selezione ragionata di lavori storici e recenti, appartenenti ai differenti “cicli cromatici” che hanno scandito, in oltre quarant’anni di ricerca, il lungo percorso compiuto dall’artista; sovrapponendo così differenti cronologie e prescindendo dalla scansione temporale delle singole opere, verranno divisi nelle stanze espositive del Palazzo della Loggia i “rossi”, i “blu”, i “grigi”, i “verdi” e i “gialli” per ricreare un viaggio emozionale nel mondo intimo e segreto che ciascun dipinto evidenzia ed ex-prime nella suggestiva violenza del colore. Ciascun colore allude, infatti, nel suo rapido e perentorio manifestarsi dal e sul nero dello sfondo, a un trascorrere del tempo biologico segnato da riflessioni esistenziali che divengono, nel lungo e denso tragitto creativo, tracce materiche continue di superfici pittoriche complesse, identità non figurative (o pre-figurative) libere da risvolti immediatamente astratti di semplificazione del soggetto e narrate dalla forza multi- evocativa del pigmento come passaggio intermedio di un processo formativo del segno, in attesa di una sua traslazione concreta e solida dall’interiorità cosmica all’universo delle cose. Le tele selezionate, acrilici e tecnica mista di piccolo, medio e grande formato, comporranno una letteratura primordiale, scarna e aulica, in cui il groviglio caotico del colore cede il posto all’ essenzialità argomentativa delle introspezioni, delle speranze, delle illusioni, delle visioni, asciugandosi di ogni elemento superfluo e riscoprendosi - pur nella vitalità di qualche sbavatura di colore puro, liquida come linfa vitale - laica liturgia che rinuncia alla prolissità della prosa in favore di azzardati equilibri compositivi, secchi e imprevedibili come versi avanguardistici, come composizioni e improvvisazioni su pentagrammi astratti percepibili, per sinestesia, come musica dodecafonica. Accenni di musicalità sacrale, orchestrati sugli insegnamenti di Vasilij Kandinskij, svincolano l’oggetto-pittura di Vito Campanelli da una fruizione meramente visiva per ricondurlo ad una ricezione psichica che avvia lunghi viaggi spirituali e apre percorsi emotivi prossimi a quelli compiuti dall’artista e dal suo agire nella sfera della comunicazione sensoriale, nutrendo l’anima (prima ancora che soddisfare lo sguardo) e ricordandoci che “il colore è il tasto, l'occhio il martelletto, l'anima un pianoforte dalle molte corde”. Dal magma di pittura che costantemente corregge il perdersi nell’incompiutezza per raggiungere punte di lirismo e di conquista della quadri-dimensionalità vicine sia alla ricerca spazialista di scuola veneziana sia all’espressionismo astratto americano, Vito Campanelli inventa nella materia cromatica e solo attraverso di essa, elegantemente raggrumata o stemperata nelle vaste campiture nere o nei parossistici vortici di luminosità, paesaggi eterei e viaggi siderali che lasciano talvolta affiorare un elemento concreto, particolare minore ma fortemente evocativo di una tangibilità dissolta e subordinata al pigmento, prima di ricollocarsi nell’assoluto e fondersi nei turbinii serrati e claustrofobici della vernice. Le pennellate grezze e ansiose lambiscono la tela come note talvolta disarmoniche all’interno di partiture euritmiche, destrutturando una prosodia narrativa e figurativa che parte dall’astrazione e corre fino all’informale e che, anche quando parrebbe essere lineare e monocroma, si reinventa costantemente in nuovi virtuosismi e in nuovi assoli, in giochi cromatici complementari sulle tonalità basiche dello spazio che vanno a risvegliare archetipi assopiti ma sublimi. Il segno che ne deriva implode ed esplode a intermittenza, come se scorresse fluido e sincronico da sempre, costantemente vincolato in spazi-altri nei quali la contemporaneità del tempo presente si rigenera nella successione degli attimi, della vita, lasciando giusto il tempo al colore di variare i toni senza alternarne la sostanza, sedimentata in momenti aggregativi continui, dai contorni indefinibili eppure certi, percepibili, nel loro dipanarsi inesausto lungo vettori creazionistici imprevedibili, come forme energetiche ieratiche e assolute. Il titolo della mostra OPUS, oltre a riportare l’attenzione sull’artista evocato qui dal suo pseudonimo, allude, nell’etimologia della parola, alla manualità della ricerca, alla quotidiana ripetizione di un gesto apparentemente libero e definito da note di casualità, in realtà condotto da rigore, dedizione e rigida gestualità che mira, rispondendo alle leggi della creazione, a ridefinire le innumerevoli forme del caos e a trovare nella pittura il principio unico e sintetico di tutte le metamorfosi della materia dell’Universo.
VITO CAMPANELLI - L’IMPORTANZA DEL COLORE di Marialugia Chiosi (2022)
Ho incontrato per la prima volta il pittore Vito Campanelli una sera del giugno scorso, quando assieme a due amiche, sono entrata nel suo atelier di Mestre per un evento culturale, un incontro letterario. Prima di allora per me era soltanto un quadro esposto tra i finalisti del premio Pittura Città di Mestre, un quadro che avevo notato, pur nella ridda caotica di tanti lavori poco accattivanti. Come per dire che non lo conoscevo affatto. Confesso che quella sera ho seguito molto poco la presentazione di un libro da parte dell’autore, né ho ascoltato la musica che faceva da sottofondo alla lettura di alcune pagine. Magneticamente ero invece attratta dai quadri appesi alle pareti della sala. Quello che vedevo aveva un fascino speciale per me che sono da sempre un’apprendista pittrice, destinata a rimanere tale in eterno. In compenso ai limiti creativi che madre natura mi ha dato, nell’arco di anni ho saputo però sviluppare una discreta capacità di lettura e di analisi che mi permette di comprendere il valore della pittura altrui. Questo per dire che ciò che mi circondava nello spazio angusto della sala gremita, meritava tutta la mia attenzione. Era un trionfo di grandi tele piene di colore che parlavano da sole. Rigorosamente tutte realizzate con colori acrilici. Mi piacevano, mi intrigavano, suscitavano in me una forte curiosità di voler conoscere di più, di entrare in comunione con il loro autore. Alcune di esse esprimevano forza, passionalità, solitudine e dolore. Tutti sentimenti che in quei giorni cercavo di mettere nei versi della mia nuova raccolta di poesie focalizzate sulla guerra che stiamo vivendo e che dal detto al fatto ci ha tolto il sonno e la serenità. Una in particolare sarebbe stata perfetta come immagine per la copertina del mio libro. Rosso, blu, nero, arancione giallo, bianco, azzurro. Colori saturi, vibranti vita, nettamente distinti in sapienti contrasti che urlavano, che emergevano dalla tela, in masse quasi buttate lì per caso, frutto di gesti istintivi più che della ragione. Non davano corpo a forme vere e proprie perché a tratti si compenetravano, si fondevano o venivano congiunte da sapienti colature di colore diverso, colature che davano loro movimento e rompendo la staticità del dipinto, rendevano fluido l’insieme. Colature, non sbavature, usate con sapienza per formare un intreccio di sensazioni che davano al lettore la possibilità di trasfigurale a sua volta in emozioni pure. Colore, colore in quantità. Colore come protagonista primo, Quasi un’intera tavolozza di colori che parlavano, che raccontavano e che, dando spazio ad una marea di passioni, dominavano sugli altri. Ora diventavano aggressivi, ora quasi trasparenti per celare appena vaghi ricordi lontani che affioravano dall’inconscio come figure umane, figure antropomorfe, sagome geometriche che si modulavano in sfumature quasi impossibili, grazie a sequenze di tonalità più delicate. Capaci però di fissare nella materia bianca della tela il pensiero profondo di un “io”, che chiedeva proprio in quel momento di essere comunicato. Una pittura informale, spontanea, istintiva, nata sicuramente da una naturale capacità creativa di notevole spessore, che non presupponeva progetti iniziali, bozzetti o quant’altro ogni pittore solitamente usa prima di mettere mano ad un lavoro. Nell’insieme tutto era affascinante, perché da un magma materico di colore pulsante, lasciava trasparire essenze, in un voluto sotto tono, quindi mai vere protagoniste, ma funzionali al complesso del discorso che voleva far emergere. Certo non una tecnica casuale, ma razionalmente e caparbiamente voluta che presupponeva, nell’artista, una volontà continua di ricerca di codici espressivi e linguistici personali per giungere alla meta di un linguaggio unico che lo connotasse. Il linguaggio è sicuramente lo scoglio più difficile da realizzare da parte di chi si trova a tu per tu con la volontà di produrre Arte, perché solo attraverso un linguaggio proprio, l’artista riesce a mettere in luce la sua individualità ed emergere dalla massa. Sotto questo aspetto si può serenamente dire che Campanelli ci è riuscito. Codici espressivi unici quindi, che nel suo caso, sono sicuramente il prodotto di una dote naturale, indiscutibile, coniugata ad una naturale conoscenza della materia che usa e della tecnica pittorica che ha acquisito nel tempo e che ormai ha fatto sua. Solo chi conosce le fondamenta della sua pittura può tentare di superarle, di destrutturarle, di sconvolgerle persino, per creare, una nuova e diversa realtà che si tramuta nel suo nuovo “presente”. Picasso ce lo ha insegnato. Un presente dove può avvenire anche il miracolo della metamorfosi qualitativa della materia usata: colore / segno che cessano di essere strumenti, per diventare protagonisti- artefici primi che raccontano visibilmente l’evoluzione sostanziale di colui che grazie a loro crea Arte. Un’evoluzione complessa che spesso ha bisogno di tempo, di maturazione, di coraggio per osare oltre il consueto, il già visto, il già fatto. Evoluzione che necessita di indubbie capacità, di consapevolezza delle proprie possibilità e dei propri limiti. Quest’ultimi fondamentali, perché per l’artista sono la barriera da superare se vuole superare il passato, e nello stesso tempo permettere pienamente al presente di manifestarsi e di essere. Il presente inteso non solo come misura umana del tempo, ma soprattutto come attimo creativo nuovo. Il presente che per natura è sempre breve. Tempus fugit. E’ quel sic et nunc latino che nella pittura si può identificare nel momento dell’ispirazione prima, immancabilmente superato da ciò che viene subito dopo, perché la vita stessa è così. Un continuo mutarsi, una costante evoluzione o involuzione fino all’istante dell’ultimo respiro. Per il vero l’artista, che mai è contento di sé, che mai si sente arrivato, la vita è sempre creatività, crescita e approfondimento che diventa cosciente sperimentazione e ricerca di nuovi spazi espressivi, a lui più congeniali, liberi da qualsiasi condizionamento esterno. E’ sempre stato così, la storia dell’arte ne è testimone. E così solo attraverso una complessa evoluzione, metamorfosi quasi, anche la materia, di per sé amorfa, inerte, spesso silente nelle mani di altri, riesce a prendere vita, a compiere quello scarto di qualità fondamentale per parlare, per narrare e in questo modo, entrare nella mente e nell’anima di chi un giorno potrà essere il suo lettore e, compiendo il miracolo della comunicazione, arricchirsi continuamente. Questo è il potere magico dell’Arte. Nel completarsi in altri soggetti che la comprendono, l’Arte si realizza, si trasfigura e vive al di là del tempo e dello spazio in cui viene prodotta.
Campanelli è un pittore autodidatta, che presto ha compreso che la strada da percorrere doveva lasciare spazio alle sue intuizioni, alle sue passioni, a quel mondo onirico che possiede con quasi infantile semplicità e costantemente implementa con continue e febbrili sperimentazioni sulla materia/colore perché soltanto il colore riesce a dare forma ai suoi sogni, ai suoi pensieri, ai sentimenti che vive. E in fondo il sogno che cos’è se non la più spontanea ed inconscia espressione dell’anima?
LE VIE DELL'OPUS di Francesca Brandes (2022)
Vito Campanelli espone a Venezia, nella splendida sede del Giardino Bianco ArtSpace. La sua mostra, in coppia con la scultrice Marialuisa Tadei s’intitola Gesto, forma e astrazione. È curata da Marco Dolfin e offre un’occasione imperdibile di accostarsi al lavoro instancabile e periglioso del Maestro veneziano.
VITO CAMPANELLI E IL FUOCO
Sì, perché le sue tele ardenti, serie di Opus dalla cifra caratteristica – rosso Campanelli, innanzitutto, e nero fulgido, la gamma stupefacente degli azzurri – posseggono l’intransigente sincerità di un presto con fuoco. E ogni azzardo ha la sua notte, domande e angosce irrisolvibili. È difficile cercare l’essenza là dove la terra appare salda. Invece, quando il gesto di Vito spinge a distogliere lo sguardo dall’ovvio, ecco apparire lo smarrimento necessario.
Quando accade, si scoprono vie interrotte.
Solo allora, possiamo assecondare i tracciati di una logica diversa, percorsa da sussulti altalenanti. Ed è ancora opus, ancora musica, l’eco senza nostalgie di un’epoca di brividi ed illusioni, a guidarci. Siamo della stessa generazione, il Maestro ed io, gente degli anni Sessanta: dissonanze da Velvet Underground, la voce roca di Nico; scatole sonore di Joni la bionda; Nirvana e Radiohead. La forza di un mondo nuovo, psichedelico, straniato, agito. Travolgente come l’onda vitale dei Pink Floyd.
LA PITTURA DI VITO CAMPANELLI
Vito dipinge tutto questo, con dolcezza, con furia, cercando risposte forse irraggiungibili. Leale con il pubblico, esigente con sé. Dipinge da quando era ragazzo, buttando la vita nelle tele. Non è importante incasellarlo; piuttosto, colpisce da decenni la pienezza del suo gesto, che continua ad ammaliare (e non solo per estetica).
LE VIE DELL'OPUS RAPPRESENTANO UNA GEOGRAFIA SENZA CARTE
Ogni volta una strada nuova, un tuffo al cuore. Il punto di arrivo, per fortuna non esiste; non possiamo mettere in conto la salvezza. Insieme, pubblico ed artista, viviamo un’avventura cangiante e precaria. La via che segue Vito – senza tempo nel passare degli anni – non è quella della conquista, ma dell’identità.
Il pittore dà un nome a chi è in cammino, l’uomo si dà un nome
Bisogna dimostrarsi all’altezza della sfida: quel fuoco alchemico toccato da una traccia bianca minuta, di purificazione estrema. Neve su fiamma, segno voluto, perché nulla sia dato per scontato, neppure l’evidenza del gesto o del colore, il gradiente massimo della temperatura, l’intensità sensuale che lo sguardo abbraccia.
Campanelli e i gradi di avvicinamento
Tutto, però, deve avvenire per gradi: scegliere di dipingere, senza sapere dove il cammino conduca, prestando attenzione a qualcosa che non tutti vedono. Appena un’inezia, un’asimmetria, un’ombra. Poi, dipingere, facendo cenno a quell’invisibile, perché possa essere condiviso, pur nella sua invisibilità. Salendo e scendendo, arrampicandosi sulle note; avanzando.
IL BINOMIO CON TADEI
Le tele, le carte esposte al Giardino Bianco, in felice relazione con le sculture di Marialuisa Tadei, recano spesso quella traccia, una lattea scia, un punto contrastato. Forse sono i sassolini che Vito semina lungo il percorso per riconoscersi, per far memoria della direzione. Via via, nel tempo, l’artista ha sperimentato anche il levare, assottigliando lo spessore della sua atmosfera.
Dal canto suo, il critico Dolfin – nella bella nota che accompagna l’esposizione – mette ancora una volta in evidenza l’ascendenza cromatica tutta veneziana di Campanelli: «Possiamo quasi leggere – scrive – in questi rapidi fendenti di pasta-colore un’atavica propensione veneziana al tocco fulmineo tintorettesco».
L'INCROCIO TRA PITTURA E SCULTURA
Forse, a visitare la mostra – emozionante, nitida, con quel dialogo inatteso tra pittura e scultura, nel comune denominatore di un “fare arte” con serietà e convincimento – si può notare anche, nel gesto di Campanelli, qualcos’altro. Non solo l’impeto, quello è apparenza, come il volo di un danzatore che appare lieve, e invece è frutto di volontà, fatica e timore. Ciò che importa è l’articolazione occulta, la fibra muscolare che dona vigore a quel gesto, con estremo raziocinio.
BRACCIO E TELA
Vito Campanelli lavora con un corpo-tutto; un monstrum di energia, istintivo e meditato ad un tempo, tra il braccio e la tela, Qualche volta, quasi un ossimoro. Eppure le tele riscaldano dalle pareti, mandano riverberi all’onice, all’alabastro delle pulite forme di Tadei. L’opus procede, improvvisa o per tappe, e vi si affollano stelle comete, come scintille da pietra focaia.
La sfida più grande è mantenere una costante ed ampia risonanza: legati assoluti, acrobazie di senso, bassi avvolgenti. È sempre l’attimo che precede l’alba, nei lavori di Vito. Credo siano il dubbio, l’angoscia della condizione umana e l’amore, tanto, a farli così belli.
ROSSO CAMPANELLI di Cristina Pappalardo (2021)
Il rosso Vito Campanelli nasce da un bisogno atavico e carnale di tradurre l'atto pittorico in potenza. L'irrazionalità' dell'amore, il dramma della separazione, il trionfo della vita sulla morte, la rinascita dopo una fase di depressione, la vitalità vulcanica e la trasformazione fumantina trasmesse da questo colore, fanno del Rosso Campanelli un unicum nel panorama pittorico odierno. I rossi sono inimitabili, trasgressivi, violenti, virtuosi, scanditi dalla pennellata decisa del pittore. Essi rappresentano la profondità dell'animo umano, la vita, quella vera, scandita da fasi di folle transizione. Accompagnato dai Radiohead, fonte d'ispirazione anche artistica oltre che musicale, l'artista crea Dispersione nel 2001. Una scossa energica percuote lo spettatore e cattura magneticamente il suo cuore. Le ardite soluzioni e gli accostamenti cromatici inusuali lo conquistano. Finita la prima fase di ricerca con il primo Opus dal 1995 al 1999, dopo una serie di dipinti su tela e di cui alcuni dalla precoce gestazione e realizzazione, nasce lui. O forse lei. O forse loro. Il rosso, i rossi, quelli che non lasciano indifferente nessuno, quelli che ti lacerano dentro e che ti fanno battere forte il cuore. Sì, i rossi, quelli che ti riportano a forti pulsioni, ferite e ricordi del vissuto infantile. Sì i rossi Campanelli, quelli su sfondo blu, su sfondo nero o semplicemente solo loro, i rossi, quelli per cui non si vive senza.
VITO CAMPANELLI - Cristina Pappalardo (2021)
Un opera è bella a seconda di chi la guarda e a seconda di come la interpreta. Questa era l’idea per il critico e filosofo inglese Burke. Tale idea che vede la soggettività essere prevalente nel caso di un giudizio di merito in campo artistico non può essere più vera quando si parla di astrattismo e arte contemporanea. Vito Campanelli, pittore mestrino, da più di quarant’anni stupisce giorno dopo giorno i suoi fans con delle opere materiche ove istinto e passionalità si mescolano con colore e segno grafico. Immensa fucina di idee, opere e colori che conosciamo sotto il titolo di Opus Campanelli si possono ammirare online su instagram e Facebook
Vito non è un pittore come gli altri. Timidezza a parte, quando si trascorre qualche istante con lui si resta per forza affascinati dal suo pensiero proteiforme dalla sua profonda conoscenza in ambito musicale e dalla sua vita ricca di aneddoti e vicissitudini incredibili. Vito, molti non lo sanno, è stato anche curatore e organizzatore di mostre e di appuntamenti culturali.
Ma che tipo di percorso ha intrapreso questo artista per arrivare a tale maturazione artistica? La sua vita ha avuto un passato di privazioni. Madre e padre assenti, provvisorietà, continui cambiamenti lo conducono in tenera età a ricercare una dimensione tutta sua e a coltivare questa grande passione. La sua prima collettiva alla galleria S.Vidal di Venezia all’età di diciassette anni con due tele astratto informali. Il sacro fuoco della genialità già ardeva in lui con veemenza. Regole, improvvisazione, armonie cromatiche ed equilibri strutturali facevano parte di un unico progetto sempre in fieri.
I suoi dipinti sono corporei, vita e atto. Serenità e trasformazione continua alla ricerca di uno stato d’equilibrio sono tipiche della sua produzione. Durante la sua formazione Vito è rimasto affascinato dall’archeologia e dall’antropologia tanto da ideare tutto un lavoro di scavi e incisioni rupestri intitolato “tracce” negli anni 80 e fino al 92. Tra il 1995 e il 1999 questo artista rende tutto meno colorato, restando fondamentalmente legato all’ambiente della terra. Coaguli di materia e forme non finite sono le protagoniste (Opus I). Una tela per Campanelli è come una poesia che si crea parola dopo parola, segno dopo segno, pennellata dopo pennellata. La carnalità delle tele deriva dall’importanza che questo pittore ha dato alla materia, ora come allora, elemento costitutivo e precipuo da cui partire.
Tutto si colora poi nell’anno 2000 con l’uso dei primari. Ciò che all’inizio sembra casuale, col passare di ore o addirittura giorni si tinge, si mescola e diventa ciò che l’osservatore, a seconda della sua personale interpretazione, vuole che diventi. Non c’è convenzione né tradizione, nelle opere di Vito respiriamo libertà ed evasione. L’estasi materica deriva tanto dal segno quanto dalla stratificazione del colore. Invero ci si vorrebbe tuffare nel Rosso e nel Blu che sono i colori Campanelli. Il primo rappresenta la pulsione emotiva. Il secondo rappresenta una sfida continua per l’artista: il blu è più difficile trasporre sulla tela. Basta osservare una delle opere di Vito per esserne totalmente catturati. Un nodo in gola, gli occhi lucidi, i brividi d’estate, una frequenza emozionale, una sinestesia artistica e tutto un universo che pulsa. Ecco, sì, questo è Campanelli.
“ROSSO CAMPANELLI” di JOSE' MIGLIORINO (2019)
Rendere fruibile in modo concreto la produzione artistica di Vito Campanelli è compiere un viaggio lungo, che percorre molte tappe della sua esistenza, ma che certamente è possibile paragonare ad un ininterrotto flusso della coscienza. Lo stesso “stream of consciusness”, che si fa largo nella letteratura del primo Novecento come figlio della psicanalasi di Sigmund Freud, da lui fondata come analisi dell'inconscio, concetto già introdotto nel Settecento dai filosofi razionalisti, John Locke e Cartesio. Ciò che nella letteratura si estrinseca nel “monologo interiore”, presente nei romanzi psicologici di James Joyce e Italo Svevo, trova un suo parallelo nella letteratura pittorica, che in quello stesso periodo rappresenta l'inconscio, attraverso l'uso di simboli. “L'Isola dei morti” di Bocklin ne è un esempio. Viene raffigurato un isolotto roccioso ed una distesa d'acqua, con una piccola barca a remi condotta da un Caronte, che trasporta una figura vestita di bianco ed una bara ornata di festoni. E' la rappresentazione del funerale, oggetto di ricordi ed incubi notturni dell'artista. Quello stesso inconscio pervaso dalla sordità, che induce Goya a dipingere freneticamente sui muri della “Quinta del Sordo”. Questi simboli furono, in un secondo momento, sostituiti dai pittori dall'Avanguardia surrealista del primo Dopoguerra, proprio mettendo in atto in pittura, il fluire dell'inconscio; ovvero l'inconscio figurato, che poi si estende alla pittura informale del secondo dopoguerra di Burri, Debuffet, Pollock. Osservando l'iter artistico di Vito Campanelli, con particolare attenzione alla selezione di opere presenti, non è possibile non percepire il flusso dei pensieri consci ed inconsci dell'artista. Ci troviamo dinanzi ad un artista che inizia a dipingere molto presto. Già all'età di 12 anni, chiari sono gli intenti del suo “viaggio”; un inizio dedito al figurativo, come sempre accade agli artisti di questo genere, dove già mostra delle visioni metafisiche. La sua pittura è “medicina dell'anima”, totalmente interiore, favorita dall'ascolto della musica (dal Progressive fino ai Radiohead), sua grande compagna ed amica fidata, fondamentale per il suo operare. Lo aiuta ad isolarsi ulteriormente in un mondo di spiriti e di cose inconsce, che nemmeno lui sa spiegare, portandolo a realizzare figure nebulose, materiche, realizzate con tecnica mista, fatta di olio e tempera. Quella musica colta ma priva di una struttura preordinata, gli fornisce quell'incipit creativo che, istintivo appare solo ad uno primo sguardo. Un istinto razionale, se solo ci fermiamo ad osservare gli sfondi dei suoi dipinti. Già da lì si può decodificare un suo messaggio subliminale. Egli prepara religiosamente la sua tela, ma prima di partire con il gesto creativo istantaneo, sente la necessità di mettere calma, stendendo con modalità quasi certosina, il colore che farà da spalla alla scena centrale e che gli consentirà di scatenare tutta la passione che caratterizza il suo “fare”. Il gesto istintivo, che caratterizza gli artisti informali, in Campanelli ad un certo punto si placa. Ciò che in Pollock avviene attraverso il “dripping”, in una trance che egli mutua dai nativi americani, in Campanelli si attenua per lasciare spazio alla ratio, che gli consente il labor limae, fondamentale per conferire bellezza al tutto, a dare all'insieme ciò che per noi è il colpo d'occhio, quando ammiriamo le sue opere. Il lato estetico riveste un ruolo fondamentale e, affinchè tutto si compia, Campanelli utilizza le grandi dimensioni; esiguo il numero di piccole opere. E' sul “grande” che si compie il “tutto”, con ampie pennellate realizzate tramite l'utilizzo di colori puri. La selezione di opere che dà il titolo alla mostra “Rosso Campanelli”, si inquadra nella sua ultima fase pittorica, tutt'ora in corso, che si inaugura dopo un periodo di grande interesse per l'archeologia e l'antropologia, una vera e propria passione che dà vita alla serie “Tracce” , pittura sempre molto materica, fatta di gesso e pomice acrilica, che lo occupa fino al 1995, per poi mutare nuovamente quando nascono delle atmosfere lattiginose, nelle quali egli cerca di portare fuori la propria parte organica. Sono fasi di transizione; nel 1996 iniziano le prime colature, dando vita ad atmosfere più spazialiste, così come la serie “Meduse”, che rappresenta un altro tema molto importante in un passaggio dalle atmosfere lattiginose, siderali, all'acqua, alle origini; alle sue origini che, sempre a livello inconscio, egli mette in scena in queste opere. Un cambio repentino, sia nella tematiche che nel cromatismo, avviene tra il 1999 ed il 2001. Un periodo di riflessione, lo conduce nel passaggio dai toni sfumati e tenui all'utilizzo del colore puro. “Dispersioni” che realizza in questo periodo, rappresenta lo spartiacque tra un momento e l'altro, dispersioni elettriche nate dall'ascolto di “Kid A” (2001), album premiato dei Radiohead, segna un cambiamento significativo a livello di messaggio musicale, da rock strumentale sperimentale a rock elettronico. Naomi Klein, giornalista e saggista canadese, pubblica nel 2000 il saggio dal titolo “No logo”, definito dal New York Times manifesto del movimento antiglobalizzazione. L'opera provoca forti emozioni nella band, tanto da diventare il motivo propulsore per la realizzazione di questo album. Il risultato musicale dei Radiohead è un album fatto di tracce musicali e di sonorità fratturate e scomposte, che non offrono alcuna certezza. E' da questa assenza di certezze presenti in “Kid A”, che prende vita “Opus secundum” nel 2001, con il conseguente e profondo mutamento cromatico, tramite l'utilizzo dei colori puri e primari come il rosso, il blu, il bianco ed il nero. Un percorso che continua nel “tempo siciliano”, che Campanelli vive aderendo ad un progetto per Salemi, che si concretizza in una mostra al Castello Normanno Svevo della città omonima nel periodo in cui Vittorio Sgarbi è Sindaco della città. Nasce qui “Sous le rouge”, una ventina di tele allestite curate ed ambientate dalla squadra di Oliviero Toscani all'interno delle architetture del castello. E' cosi che si giunge all'oggi e alla continuità nell'utilizzo degli stessi colori. L'interazione dei rossi con il nero continua a rappresentare il filo conduttore della sua produzione che oggi è qui allestita con il titolo”Rosso Campanelli”: venti opere di cui sette inedite. “Rosso Campanelli” è la convivenza ed il contrasto del rosso con il nero ed il bianco, che certamente in un primo momento rappresenta la negazione nei confronti di modelli precostituiti, per poi prendere una via ancor più personale. Il suo rosso è quello carminio, declinato in momenti successivi in rossi derivati da esso. Il colore del sangue e del fuoco, ma soprattutto del sangue nel suo scorrere centripeto nelle vene, uno scorrere chiuso che arriva sempre al cuore, il centro del dolore, ma anche della felicità; un dualismo che pervade tutta la sua opera. Il rosso a contrasto con il nero, che fa da sfondo, ma che non è mai del tutto puro, dove ad un certo punto compare il bianco, la luce, la razionalità, la conquista di qualcosa di positivo. Il disagio ed il dolore, come motore della sua prima fase produttiva, la serenità duramente conquistata, derivata dall'amore e dalla maggiore consapevolezza di sé, rappresentano il fil rouge di questo sua seconda fase artistica. Josè Migliorino
VITO CAMPANELLI - FIFTY KINDS OF BLUE di Gaetano Salerno (2012)
Anche nel nuovo ciclo di lavori l’artista struttura un’intensa narrazione del colore – audace, iperbolica, emozionale - prescindendo dagli elementi tipici della narrazione stessa: le figure e il tempo. Le trame fitte di queste storie cromatiche si riversano sull’osservatore con inaudita violenza, abbracciandone i sensi (anche l’udito e il tatto, laddove il colore assume corpo e musicalità) e circondandolo di emozioni atemporali che solo nelle sfumature cromatiche riescono a trovare i giusti gradi di comunicabilità e di accordo empatico. La presenza autoritaria e viscerale del gesto pittorico dei precedenti cicli, in cui l’energia vitale ma anche il risvolto sofferente della carnalità venivano evocati dai violenti rossi percettivamente prossimi all’osservatore e senza l’utilizzo di figure retoriche, lascia il posto ad una nuova consapevolezza artistica, ad un ritrovato equilibrio mentale che riguarda l’uomo, oltre che l’artista; le nuove divagazioni del blu – da sempre nell’arte colore evocativo della spiritualità – sottolineano il cammino verso una nuova forma di purezza del pensiero, di liberazione del dolore psichico, di avvicinamento all’infinitezza che dovrebbe, nelle intenzioni dell’artista, risvegliare i nostri assopiti mondi interiori, facendo vibrare l’umanità tutta. Ogni quadro apre i nostri sguardi ad universi espressivi giocati sul confine tra pratica informale e spazialista, con ripidissime discese ed improvvise ascese dentro e fuori l’immagine, conducendoci in un viaggio iniziatico e conoscitivo nel mondo psichico di Vito Campanelli, lungo le connessioni sinaptiche di un artista che altruisticamente non ha mai nascosto la propria vita dietro una tela, rendendola anzi maggiormente pubblica e condivisibile, negli alti e bassi dell’esistenza, proprio attraverso il fare pittura. Nei parossismi cromatici allora, nei ritmi inferti alla trama pittorica dalle leggere digressioni tonali sul monochrome iniziale, ecco stagliarsi spazi inattesi di profondissima quiete, attimi riflessivi che la pittura, quando smette di ricorrere all’artificio della tridimensionalità per inverarsi nella pura essenza materica, non può non ricercare. Dissolvere le forme, evocando presenze attraverso le assenze, equivale così a suggerire nuovi spunti di osservazione, nuovi inviti a penetrare le immagini assecondandone gli stimoli percettivi. Non più deduzioni ma intuizioni, indotte dagli imprevisti abbagli dei punti luce di queste magmatiche alterazioni dell’osservare e dell’esistere, soggetti transitanti tra gli stati aggregativi della materia in cui ogni grumo di pigmento è ampliabile all’infinito, come frattale della realtà che satura il vuoto, lasciando intendere che oltre i confini della nostra limitante quotidianità esiste una realtà altra e alta – dirottando l’attenzione dallo spazio del quadro allo spazio nel quadro - che ambisce a raggiungere il mondo delle Idee.
VITO CAMPANELLI - MOTUS COLOR di Lucia Proganò (2012)
L'astrazione è un intenso viaggio emotivo, complesso, sorprendente, affascinante, è una dimensione eternamente vitale dove la ricerca e la costruzione del senso si apre a possibilità infinite.
Superare la figurazione significa andare al di là di ciò che ci è noto, familiare, digeribile; fare a meno di essa vuol dire provare a definire un altro tipo di espressività.
Ma chi osserva un quadro astratto, indipendentemente dal fatto che ami il genere o no, si pone inevitabilmente delle domande: "come accostarsi a un'opera che sembra priva di appigli percettivi? Come leggerla?"
L'"assenza", anzitutto, ha un valore positivo: se le forme oggettuali svaniscono la nostra comprensione vacilla, è vero, un alone di mistero inizia ad aleggiarci intorno, un qualcosa di "non detto" rende la visione ambigua ed enigmatica, ma è proprio di fronte a tali fenomeni che diventiamo parte di un piccolo prodigio: i sensi si attivano, la percezione si modifica e la ricezione degli stimoli si apre a dismisura.
Si osserva un quadro astratto lasciando inizialmente da parte la certezza di poterlo comprendere del tutto, quel qualcosa che continua a sfuggirci e che rende l'opera sempre ammaliante e misteriosa, è esattamente ciò che innesca il paradigma alfabetico della "nuova figurazione" elaborata da Vito Campanelli.
Inconsueta, pulsionale, tirata fuori dalle sue viscere, il pittore rende l'astrazione tutto fuorché banale proiezione di una realtà esterna. Il mondo dell'interiorità può essere infinitamente più complesso dell'ambiente che ci circonda, eppure le due parti non smettono di influenzarsi reciprocamente. E qual' è il risultato che ne deriva ? Uno shock visivo, un dramma, un mistero, il desiderio di eguagliare il movimento del pensiero. Quando la pittura si annette all'anima, l'artista va alla ricerca dell'indicibile e raffigura sulla tela non il reale, ma il colpo che da esso riceve.
Quando le coordinate del sentire si spostano sulla ricerca profonda della consapevolezza di sé occorre trovare percorsi figurativi "altri".
L'"io" viene strappato fuori dal di dentro e assume il suo paradigma estetico: superfici belle, sensuali, liriche, suadenti, ma anche misteriose e problematiche. Pennellate dense e concitate, graffianti e silenziose, raffinate e brutali, il gioco degli equilibri si regge anche sui contrasti. Una tensione dinamica anima ogni elemento presente sulla tela, ma non c'è disordine né confusione, bensì armonia, bellezza.
Perché, in fondo, bisognerebbe rinunciare a virtù che da sempre affascinano e appagano l'uomo?
E la seduzione, in Campanelli, è anzitutto visiva: non un segno, non una sgocciolatura, per quanto casuale possa apparire, risulta fuori posto. Nulla manca, nulla può essere aggiunto, il nuovo lessico visivo inizia la sua configurazione, ma quali sono gli elementi attraverso cui si manifesta?
Primo fra tutti il colore.
Bastano un blu e un nero per creare un'emozione, pochi altri toni sapientemente calibrati a dare ancora più evidenza e spessore. Seguire il colore è un atto di fiducia, accompagnare il percorso del pennello, assecondare il piacere della mano che traccia un segno veloce o che accentua una stesura significa saper dar spazio a una tecnica che sposa anche il caso, l'aleatorietà. L'artista, inizialmente, traccia dei semplici segni, delle macchie di colore, lascia libero sfogo alla loro intrinseca vitalità, ma il favore poi viene ricambiato, ecco che linee e chiazze si piegano al suo volere e si lasciano dominare dalle sue agili mani fino a scomparire sommerse da sovrapposizioni cromatiche e materiche.
«Io parto con dei tratti di gessetto o carboncino. Traccio delle linee, delle forme... ma il più delle volte tutto rimane sepolto in quello che alla fine è un processo di "stratigrafia" .…la casualità man mano si affievolisce in un concetto più controllato... arriva verso la fine dell'opera, in quel lasso di tempo che serve a rendere il mio lavoro riconoscibile.»
Seguendo tale processo la superficie si anima sotto i colpi del pennello, ma l'atteggiamento verginale verso la tela bianca non va mai perso di vista, ha un suo rituale preciso: «quando inizio a dipingere mi guardo bene dal sapere dove vado. Questa è una mia ferrea regola. Davanti ad una tela bianca è imperativo. Cancellare, dimenticare la penultima. Può rimanere solo il ricordo del colore, la memoria del colore. è un modo per riproporsi verginalmente all'impatto con la nuova tela.»
Tutto, ogni volta, è un nuovo inizio. «… Parto dal nulla. Il durante è il perenne divenire... fino ad arrivare a qualcosa che trovo soddisfacente.»
Alla fine, questa ricerca estenuante e sofferta si palesa senza veli ai nostri occhi: i dipinti di Campanelli vibrano di un cromatismo saturo e impenetrabile, ogni sfumatura diventa un territorio da percorrere con lo sguardo, lacerazioni emotivamente cariche trasgrediscono i supporti e configurano pulsioni, fremiti, slanci emotivi al limite del controllo che, nonostante tutto, restano in grado di definire geometrie a volte rigorose, altre blande.
Si, perché il colore è anche struttura, contrasto, ritmo, rigore; i suoi giochi, i suoi accordi, le sue virtù esplodono nell'attimo immediato di una pennellata che rimane in bilico tra l'istintivo e il ragionato, l'imprevedibile e il pensato.
Forme separate, o che si prolungano l'una nell'altra, diventando instabili e ambigue. Forme convulse, veementi e mai eccessive, seguono pulsioni interiori ed esprimono ciò che non ha fisionomia precisa ma che, tuttavia, esiste. Può accadere, allora che le pennellate diventino fiamme e che nella loro turbolenza, si contorcano fino ad evocare ciò che non ti aspetti: una calligrafia dal sapore orientale, un accenno di antropomorfismo che svanisce nell'esatto momento in cui si coglie.
Emerge con forza una coerenza di visione che è l'intima forza di ogni opera d'arte dipinta da Campanelli. E' uno scambio empatico, una parentesi magica in cui l'atto creativo produce qualcosa di palpabile; nelle sue mani tutto diventa eloquente.
Ma che succede quando la forma si scontra con la materia?
La materia è già di per sé, uno splendido universo di significato e significante. Essa è memoria, conserva momenti di qualcosa che è stato e che ora non è più, la sua presenza è metafora di esistenza, l'abilità del pittore veneziano sta tutta nel saper concentrare e restituire il senso di squarci di vita vissuta nella bellezza di un'impronta pittorica.
La sua materia subisce trasformazioni continue: ribolle sotto il colore vibrante, diventa rarefatta e pulviscolare, cosmica e primordiale, si annida in graffi che stanno fra l'essere e il nulla, tra il restare e lo scomparire.
Atmosfere tenui, sfumature raffinatissime e delicate si alternano a spasmi violenti. La perfezione, alle volte, si dà per sottrazione, altre per enfasi e sulle tele affiorano ulcere, lesioni, flussi magmatici che aspirano a diventare forma e non ci riescono. Due elementi, tuttavia, rimangono sempre presenti: temperamento e armonia, polarità complementari, imprescindibili.
Per ottenere risultati così complessi le tecniche e i materiali utilizzati possono davvero essere innumerevoli: fogli di carta, lacerti, stracci, tubetti direttamente spremuti sulla tela, spruzzi d'acqua, spatole. Tutti gli ingredienti appaiono e scompaiono a seconda delle esigenze, ma sovrana incontrastata rimane la pennellata.
Essa si propone in tutta la sua sontuosa evidenza materica, ma è anche capace di mediare un processo totalmente opposto: la smaterializzazione. Spogliandosi di qualsiasi plasticità e rigidità, la pennellata assume su di sé tutto il peso della temporalità: lentezza e velocità si fanno tangibili, la tela diventa uno spartito su cui si modulano note e su cui si lascia libero sfogo allo scarico di energia. Forse potremmo parlare di musica visiva.
Linee tese, sincopate, istintive diventano l'espressione grafica di una vivacità sonora che si fa epifania. Innanzi a noi si apre un universo sinestetico che cattura lo sguardo, evoca il suono e suggerisce tattilità.
Una magica inquietudine colora le pagine di questo "diario" espresso in chiave monumentale, da esso trasuda tutta la bellezza dei ricordi, delle memorie, di un tempo che non è matematicamente misurabile perché non fa parte del mondo esterno, ma proviene dall'anima.
Istanti raggelati? No. La fluidità non viene mai negata, ogni istante rimane pieno e fuggevole, ogni attimo cela un universo di subconscio e intimità assieme a una smisurata energia vitale che, proprio perché tale, ha bisogno di grandi tele per potersi esprimere al meglio. Tele che coinvolgono chi osserva anche solo per le loro dimensioni. Il quadro, in questo modo, si appresta a essere un'esperienza emotiva ambientale, si analizza e si esperisce nella sua dimensione anche temporale, si fruisce pezzo per pezzo, ci si allontana e ci si avvicina a esso, si percorre poco alla volta, dinamicamente. La visione unitaria è passata in secondo piano, la smaterializzazione ha preso il sopravvento.
E' un'arte, questa, che aderisce perfettamente alla vita e alla complessità dei suoi fenomeni mutevoli e incostanti. In ognuno di noi, in fondo, esiste la consapevolezza che non c'è nulla che duri, solo briciole di tempo, flussi di coscienza, ricordi labili ed evanescenti di un "già vissuto". Non abbiamo poteri se non quello di lasciare testimonianza della nostra presenza in questo mondo. Un artista, probabilmente, ha a disposizione più mezzi per dar prova di ciò, ma il suo atto creativo, spesso, è qualcosa di estremamente doloroso e angoscioso, e Campanelli lo sa bene. Quando egli crea si cala in un atto performativo, che sia pubblico o solitario poco importa, ciò che conta è, anzitutto, il suo atteggiamento innanzi la tela e il residuo che vi lascia è il risultato di un viaggio sofferto. «Non è semplice non sapere dove si va a parare, a quale visione si perverrà...E' un approccio doloroso, che fa male dentro... un'apnea amniotica».
Ciò che noi vediamo è l'atto finale di un processo, è la proiezione di un sentire, una traccia di sé, una concentrazione di stati d'animo che può fare a meno degli oggetti, può fare a meno della figurazione perché si spinge oltre quel limite per incarnare una dimensione più nobile.
Non c'è distanza tra il pittore e la sua creazione: sentire gli odori, i suoni, gli umori della vita, tradurli in materia pittorica significa rendere le superfici metafore di carne viva.
Innanzi al nostro sguardo si palesano allegorie complesse, di difficile interpretazione, alle quali è faticoso accostarsi perché sembrano non offrire porte d'accesso: chiuse nel loro ermetismo, spesso non hanno nemmeno un titolo e se c'è non è descrittivo né referenziale anzi, al massimo racconta di uno stato d'animo, o è la citazione di un brano musicale (che è già un universo emotivo a sé stante).
Al di là del titolo, però, la chiave per entrare dentro a queste tele c'è e si chiama bellezza. Tutta la genesi di una tela di Campanelli è pervasa di fascino, di seduzione e di bellezza. La responsabilità di saper cogliere ciascuno di questi elementi è tutta nelle nostre mani. L'atto della fruizione, però, è qualcosa di estremamente complesso, ogni spettatore interpreta ciò che vede a seconda dell'emotività e del bagaglio culturale che si porta dietro, e tale fattore non è per nulla secondario.
Ma l'opera d'arte che possa dirsi effettivamente tale è quella in grado di rinnovarsi continuamente, è quella che ha sempre qualcosa da dire, che non si piega all'unicità di un significato, ma vale in una dimensione che è a-storica e dunque eterna. Finché l'opera parlerà al suo pubblico è destinata a non morire, finché uno spettatore sarà in grado di emozionarsi davanti alla seduzione del colore di Campanelli il dialogo con le sue tele è destinato a perdurare.
VITO CAMPANELLI - OPUS II di Giulia Ceschel (2010)
Una delle teorizzazioni più interessanti su quanto stava accadendo all’arte agli inizi del XX secolo, riguardò il concetto di pittura “astratta” che venne egregiamente presentata nel saggio del 1908 dello storico d’arte tedesco Wilhelm Worringer, e che fu divulgato con il titolo “Astrazione ed Empatia ”. In questo testo lo studioso mise, per la prima volta, in evidenza il nesso esistente tra la tendenza all’astrazione e l’angoscia dell’uomo di fronte alla incomprensibilità del reale. Nella sua argomentazione non viene più presa in considerazione la forma dell’oggetto, come espressione della realtà esterna, ma al contrario come la reazione che si crea nell’animo di colui che contempla la realtà. Essa viene in tal modo percepita dal soggetto solamente attraverso i propri sensi ed in base alle sue imprescindibili emozioni e reazioni del tutto individuali. La narrazione infatti, nell’ambito del dipinto astratto, scaturisce direttamente dall’anima dell’artista.
Alla luce di tutto ciò, se osserviamo il lavoro pittorico dell’artista Vito Campanelli, vediamo che in gran parte della sua produzione pittorica che, senza dubbio possiamo definire astratta, egli sembra vivere quella tensione tipica dell’uomo occidentale, trovandosi a fare i conti con un angoscioso dualismo di tipo esistenziale. Da un lato vi è infatti un’esteriorità sociale vissuta come qualcosa d’imposto e di fittizio e dall’altro lato un’interiorità che è invece autentica espressione dell’io. Si può però cercare una via per sgretolare l’involucro sociale nel quale ci si trova immersi, e quest’ultima è rappresentata proprio dalla gestualità pittorica. Gestualità che viene così intesa come azione che l’artista compie per manifestare la propria tormentata interiorità. Campanelli, infatti, ha già deciso, ed ha intenzione di tenersi lontano da ogni forma di consumismo e di superficialità di cui è invaso questo nostro mondo globalizzato. Perché in esso, troppo spesso, si tende a sottrarre visibilità al singolo e all’individualità più genuina.
D’altra parte nel mondo dell’arte autentica non è sempre il “vero” e la“ verità” ad occupare un posto di primo piano? Se esiste un fuoco dello spirito che arde davvero, al di là di ogni tragicità, non è forse là che si manifesta una forma di bellezza propriamente umana? Soltanto l’arte è in grado di realizzare questa identità superiore, in cui artista e mondo esterno coincidono, infatti nell’atto creativo l’artista ha il potere di oggettivare l’idea nella materia e con ciò, di rendere soggettiva la materia stessa.
Già nei primi anni cinquanta in America, il critico d’arte del “New Yorker” Roberts Coat propose il termine di “Abstract Expressionism” ed il critico Harold Rosenberg, nel 1951, introdusse l’espressione di “Action Painting”. Con questi due termini s’iniziò ad indicare due nuove correnti artistiche. Queste raggruppavano spontaneamente diverse inclinazioni artistiche che erano però unite da un unico filo conduttore. Ciò che le accomunava era un’astrazione basata sulla frontalità dello spazio, la rapidità di esecuzione del ductus pittorico e soprattutto l’assenza di strutture narrative, intese in senso tradizionale. All’interno di questo gruppo di artisti, circa una quindicina, ne citerò alcuni, tra i più noti, che costituiscono un importante punto di riferimento per comprendere il lavoro dell’artista Campanelli.
Ricordiamo quindi il lavoro di Mark Rothko, Clyfford Still, Barnett Newman, Franz Kline, Willem De Kooning e Jackson Pollock che, attraverso questo movimento, consacrato da alcune famose gallerie di New York, quali quella di Peggy Guggenheim e quella di Betty Parson, raggiunsero l’attenzione internazionale anche in Europa, dove fino a quel momento, questo movimento appariva ancora sconosciuto.
A differenza di quanto fecero gli artisti dell’Espressionismo Astratto americano, l’artista tedesco Hans Hartung, ci introduce invece ad una pittura di espressione segnica, dove il “gesto” è decisamente più controllato da un’attenta preparazione propedeutica e da una profonda riflessione intellettuale. Un suo dipinto dal titolo“T”, risalente al 1956 e attualmente conservato nel Museo Nazionale D’arte Moderna di Parigi, ne è un chiaro esempio. Qui lo spazio del dipinto è infatti concepito come qualcosa di evocativo, permeato da una forte spiritualità.
Ecco allora che, dietro l’apparente semplicità dei lavori di Vito Campanelli, che a tratti potrebbe essere scambiata per semplificazione, osserviamo come nell’ambito del ciclo pittorico che prende il nome di “OPUS”, egli si ricolleghi a tutta questa tradizione pittorica che lo ha preceduto. Con il termine “OPUS” che deriva dal latino ed è traducibile con l’epiteto “lavoro”, si racchiude l’intero corpus di opere realizzate dall’artista tra il 2004 ed il 2007. Con questo titolo non dobbiamo pensare ad un auto-elogio riferito della propria attività pittorica, ma al contrario dobbiamo ricondurlo direttamente ad un’azione pura e alla gestualità carica di forza interiore, che è dominante in tutto il suo lavoro. Lo scopo unico è quello di far trasparire, di far emergere in tutta la sua prepotenza, dalla materia di cui è composto il colore, la pittura. Questa è quindi una pittura, espressa attraverso la fisicità dell’artista, che si esplicita nell’atto dello stendere il colore e nella sua rapidità di esecuzione. Tutti questi sono gli aspetti che caratterizzano i suoi manufatti pittorici del periodo 2004-2007.
Jaques Derrida, in un suo libro sulla verità in pittura, scrisse: “…fare l’economia dell’abisso: non soltanto sottrarsi alla caduta nel senza-fondo tessendo e ritessendo all’infinito la trama, arte testuale del rammendo, moltiplicazione degli elementi all’interno degli elementi; ma anche fissare le leggi della riappropriazione, formalizzare le regole che reggono la logica dell’abisso e che fanno la spola tra l’economico e l’anaeconomico, tra il rialzo e la caduta, tra l’operazione abissale che non può che lavorare al rialzo e ciò che in essa riproduce regolarmente la caduta.” Così Campanelli vive ed entra in questa logica dell’abisso, in cui opera ed anima vengono deturpate da una condizione di caduta fra l’economico e l’anaeconomico, ma in seguito questa operazione non potrà che portare ad un rialzo psicologico, in cui la sua arte diventerà oggetto e precorritrice di una stabilità emotiva.
Nei dipinti di Campanelli osserviamo come i colori siano sempre in primo piano e ci presenta una selezione cromatica di non trascurabile livello. I colori come il blu, l’arancio o il nero prevalgono nella maggior parte dei dipinti dell’ultimo periodo. Assistiamo in essi anche a continui contrasti simultanei in cui l’arancio, quando si trova accostato per esempio ad un blu oltremarino, venga sensorialmente trasformato in un grigio che si avvicina molto al nero. In tal modo viene trasmessa alla nostra retina una segnalazione, un imput che ci avvicina ad uno stato di quiete, una sorta di visione rilassata e confortevole. Essa però scaturisce come risultato di una lunga battaglia, quella che intercorre tra il pittore e lo spazio con il quale si trova a lottare. Oppure, in altri casi, si manifesta in modo simile al moto di un’onda del mare, che al suo prorompere imponente, in cui sprigiona tutta la sua forza, fa seguito una distensione, dando luogo ad un movimento più calmo e tranquillizzante, quasi si verificasse una distensione psichica.
Il campo del quadro è il luogo della tensione fra relitti di forme e sincronia del colore; ma da tutto ciò l’artista ne esce vittorioso, e adornandosi d’alloro, il suo animo contemplativo che è capace di sopravvivere al mutare del tempo, ha finalmente la meglio. Anche se, mentre tutto ciò avviene, l’artista non ne è totalmente conscio ed il suo agire, che prende forma e si materializza sulla tela, avviene con moto spontaneo.
Questo modalità di procedere, apparentemente casuale, si esplicita nell’epifania del gesto, che si costituisce e si dissolve fra visioni inconsce ed inaspettate. In tutto ciò è la pittura stessa, per prima, a dettare il linguaggio all’artista. Perciò astrarre diventa anche estrarre, quindi togliere, fino a giungere all’essenza alchemica della pittura. Pittura che, ancor oggi, possiamo considerare come una delle più significative espressioni nel mondo dell’arte contemporaneo.
Un immagine lampante di tutto ciò è per esempio il lavoro di Franz Kline “Untitled” dipinto nel 1957. Esso infatti costituisce un esempio di grande importanza, sia dal punto di vista della sua esecuzione, sia nella gestualità dalla carica coloristica notevole. Campanelli in questo aspetto se ne avvicina molto. In seguito però, nei suoi dipinti di più recente realizzazione, possiamo osservare come l’andatura del segno diventi decisamente più controllata, probabilmente questo controllo deriva da una memoria storica, di cui egli non sembra consapevole, ma che dimostra di avere il potere di trasformare, dolcemente, il rigido involucro ovattato che avvolge il segno.
Perciò la pittura di Campanelli assume, come elemento tautologico, l’arma affilata della pittura, capace di deformare la materia ed il colore, per racchiudere in sé un frammento indefinito del caos interiore, dell’io più celato dell’artista. Così con tale risposta antitetica al sociale, l’artista si lascia smarrire all’interno di un sogno esultante.
L’arte è uno dei pochi mezzi, anche per l’uomo di oggi, capace di sfidare o di contenere la paura della morte o di un destino oscuro. Ecco allora, che la pittura e l’arte in generale, possono costituire uno splendido modo di far fronte a quel “malessere di vivere” che ci accomuna tutti.
E ancora ricordiamo che “Solo gli esseri umani veramente grandi sanno dipingere” così affermo il grande artista tedesco Gerhard Richter.
VITO CAMPANELLI - FORME-PRESENZE di Michela Giacon (2008)
L'ininterrotta e continua trasformazione della produzione artistica di Vito Campanelli dai primi anni Ottanta ad oggi, è un processo accostabile alla concezione bergsoniana del tempo inteso come un continuo flusso della coscienza, tempo in cui un “prima” e un “dopo” vengono sostituiti dalla contemporaneità del “durante”. Per un pittore, è la materia la sostanza impressionabile pronta a reagire registrando subitaneamente gli sbalzi della psiche, gli eventi dell'esistere, del profondo in mutamento; materia che è e rimane problematica, scrive G.C.Argan, e proprio per questo l'artista può immedesimarsi in essa, identificarvi la propria problematicità. La materia è memoria, continua Argan citando Bergson, ma anche il qui-ora dell'esistenza : “...facendosi materia ciò che non è, il futuro si trasforma in ciò che è stato, il passato...la materia è il puro presente.”. E, sempre secondo Bergson, il senso più riposto della realtà non è avvicinabile con l'intelletto razionale, ma con l'istinto che al suo grado più alto diventa intuizione. Vito Campanelli si muove seguendo il suo istinto pittorico che diviene veggente intuizione nell'acquisita, attuale capacità di connettere - sempre senza l'ausilio della razionalità - le singole creazioni pittoriche in un discorso stilisticamente unitario e coerente. Coerenza stilistica che, dopo un percorso storico di ricerca caratterizzata da una febbrile metamorfosi, registrante appunto passaggi anche significativi da una tipologia espressiva segnico-cromatica ad un'altra, si è venuta decisamente affermando dal 2000 in poi. La ricerca di Campanelli, da sempre concentrata, dunque, sul divenire della res artistica, ha acquisito una nuova consapevolezza e oggettività, nel senso di saper ora scindere la cosa artistica dal sè. Ovvero, se prima, per istinto, l'artista registrava e in qualche modo subiva la metamorfosi, trascinato con e da essa, soggetto ancora immerso e confuso nei sommovimenti dell'inconscio, ora guarda e considera il proteiforme processo di cui è al contempo regista e interprete come una catena d'eventi separati dal proprio io: sa indagarlo con atteggiamento analitico tutto nuovo, fissandone il fluire in una sequenza di frames , inquadrature singole estratte dal proprio visionario fluire di coscienza, immagini di inquietudine coagulata in apparenze, anche consistenti, di forme. Abbiamo così una serie di enunciazioni visive, strutture linguistiche situabili in un ambiguo luogo di slittamento tra astrazione e informale, oscillanti dunque tra rigorismo formale astratto e dissolvenza della forma in “presenza” equivalente alla pura registrazione di gesti. E' proprio sulla contrapposizione, sul versus tra rigorismo formale, derivato dalle istanze costruttivistiche, e assenza della forma disciolta in un eccesso di spontaneità della scrittura, di matrice espressionistica, che si è fondata, secondo W. Hofmann, l'arte del XX° secolo. Allora “Opus II “ (2004/05) , l'ultima serie-fase pittorica di Campanelli, in qualità d'esperimento di transizione tra queste due fondamentali tendenze, rappresentandone quasi un compendio e insieme un andare oltre, si configura quale fenomeno tipicamente contemporaneo, produzione del XXI° secolo. Se nella pittura informale, ricordiamolo, il gesto assume il valore di un'improvvisazione psichica diretta di cui rimane visualizzata sulla tela la vibrante, dinamica energia, e le forme-presenze hanno spesso il carattere di affioramenti indistinti, nell'astrazione, invece, permane almeno una traccia di progettualità; la forma sopravvive anche per assenza, al negativo, e continua a sussistere la differenza tra figura e sfondo, forma e spazio. Campanelli, in “Opus II”, si è spostato sul versante dell'astrazione, ma operando, con risultati altamente originali, tramite tecniche e modalità informali. Le forme e controforme che fa apparire presentano infatti una più o meno definita qualità di struttura: rarefatte e minimaliste, ma di nuovo cose, figure che emergono chiaramente su/da un fondo; il raggelamento e la stasi che potrebbero derivare da questo nuovo esercizio di controllo, da questa traccia di premeditazione, vengono evitati e compensati dai sapienti residui di espressività che connotano la serie. Si osservi uno dei principali motivi ricorrenti in “Opus”, che contribuisce a conferire alle opere l'identità visiva di una sequenza: la tecnica della colatura, ovvero gli “sgocciolamenti” di colore di cui Morris Louis, maestro dell'astrazione post pittorica anni Sessanta, aveva fatto una scienza; tecnica proposta in modo più libero e apparentemente casuale anche da Sam Francis, nell'ambito della cosidddetta “New York School”. La reinterpretazione di Campanelli, squisitamente personale, non è finalizzata unicamente all'effetto complessivo di movimento, che vuole accentuatamente mantenere. In questa pittura di transizione, luogo inquieto di forme non del tutto nate, solo parzialmente costituite, le colature sono da leggersi come un'inconscia, tesa ricerca di segni-non segno che facciano da ponte, da trait d'union , seppur esile, da collegamento capace di tenere in qualche modo insieme forme fantasime altrimenti più frammentarie e (a volte desolatamente) sperse, vulnerabili, quasi minacciate nel loro galleggiare solitario nell'ambiente-supporto. E' la paura esistenziale di ritrovarsi frammentati e dispersi, che trapela nell'identificazione dell'artista con la materia e la forma pittorica. Il cambiamento produce insicurezza, la trasformazione genera angoscia. Campanelli si confronta, di volta in volta, con una parte del sè che, in modo certamente conflittuale, muta sembianza: l'aspetto finale è ignoto allo stesso artista. Non sapere cosa si sta diventando, a quale apparenza-sostanza si perverrà, non è un'esperienza da cui uscire indenni: malessere e disagio del profondo, chiaramente avvertibili, creano una speciale aura di sobria, sospesa drammaticità. “Opus II” è un insieme forte di slittamenti dall'informe al farsi forma, tra presenza e assenza: mostra il divenire di forme geometriche, ma al contempo indeterminate, colte, quasi fotografate sullo sfondo di un'interiore notte nel momento del loro definirsi; presenze fatte di colori di un mondo che non è il nostro. Un evento misterioso, quasi esoterico: l'origine della forma, proposto in tutte le varianti proprie a un rito ancestrale. Affioramenti primordiali assumono sotto l'occhio dell'osservatore carattere di struttura: quel a cui si assiste è la nascita della non-figurazione.
VITO CAMPANELLI di ANDREA PAGNES (1992)
La liricità come tensione nei confronti della realtà, della storia, del vissuto. L'atto del dipingere come momento liberatorio, tale da rivelarsi necessità esistenziale: un esprimere che nasce dall'essere, intimamente; un esprimere che affiora dalla memoria quale possibile dialogo, per poi all'essere inevitabilmente ricondursi. L'impegno, il lavoro di Vito Campanelli, pur intersecandosi ad influenze di matrice informale, oggi risulta sempre più caratterizzato dalla sfida, cosciente e consapevole, alle secche di modelli culturali ormai sviliti nella loro intensità per il conformarsi ad un ideale che è un non-ideale. Il suo tentativo è quello di sostituirvi la lirica illusione di un nuovo inizio, recuperare una prima traccia scavando in ciò che è più inaccessibile e nascosto. Un metodo, questo, che ancora una volta dimostra la nostra appartenenza ad una realtà non solo psicologica, ma anche psichica, affettiva e mentale insieme. Tuttavia, quella stessa illusione ricerata dall'artista, è già frantumata sul nascere, poiché quella è la sola realtà con la quale l'opera può confrontarsi. Ecco allora che la materia della pittura, il colore, non è più un mezzo: è la realtà in cui l'artista opera e, così facendo, con la quale si identifica. Attraverso l'analisi del conflitto interiore, il pittore si rivolge al reale cercando di coglierne ed afferrarne gli elementi più emotivi e drammatici. La ricerca si muove infatti tra impressione ed espressione, la materia diventa quindi il flusso continuo della realtà, dell'esistenza, in quanto è la più sensibile, la più pronta ad impossessarsi degli impulsi interiori che l'artefice, affrontandola e manipolandola, le trasmette. La tendenza non-figurativa, esigenza opposta al costruttivismo geometrico che talvolta può limitare la libertà espressiva, si pone volutamente al di fuori di qualsiasi aprioristico condizionamento formale. L'immagine, la figura, quando c'è affiora dalla materia stessa poiché è insita in essa, esiste già: il compito dell'artista è solo, in apparenza, quello di disvelarla attraverso un processo di sottrazione, L'urgenza di Campanelli è quella infatti di esaltare le qualità connaturate alla materia pittorica, mentre la precisa motivazione ideologica è quella di istituire un rapporto più diretto e immediato con la realtà, l'esistenza, al punto di sviscerarne qualsiasi contraddizione fenomenologica. Solo senza escludere l'emotività, che si cela dietro la gamma cromatica di toni e velature, la memoria può conservare il suo valore funzionale in quanto qualità dell'esperienza, solo trasformandone il carattere in un linguaggio che sia il più possibile essenziale e de-strutturato può riaprirsi un discorso “flessibile” per riuscire a stabilire un'inusitata, ma intensa, dinamicità comunicativa al di là di qualsiasi pregiudiziale storica. Nello spazio della tela il problema della realtà non può mai essere soppresso, ma l'artista, malgrado cosciente di non sentirsi totalità compiuta in se stesso, non rinuncia, non riduce: si analizza e, nel contempo, si pone come media, come altro da sé. Egli può anche esiliarsi dalla propria autonomia di ricerca poiché ha già realizzato la proprià libertà morale con la scelta: importa soprattutto ciò che ci sarà sulla tela. Così facendo, le pitture di Campanelli paiono soggette ad un processo di decantazione: la sua capacità sta nell'inserirle in una dimensione estetica particolare, al di là di qualsiasi forma o contenuto, sottomesse come sono allo sguardo obbiettivo, al ricordo lucido.
Dipingere è anche un esprimere ciò che non si può o non si sa esprimere con le azioni. In questo continuo significare sensazioni, il colore si libera dai consueti ordini gerarchici, vive di fratture e diffrazioni, assume una molteplice necessità d'espressione, viene rivendicato come memoria del futuro poiché si trasforma in ciò che è stato, il passato. Il quadro diventa frase, non isolabile, di un universo. Un universo-linguaggio dove l'operare sulla materia pittorica è indagare, esplorare, rilevare frammenti e residui e dare a tutto ciò una struttura logica, ma arbitraria, che consenta più dialoghi simultanei tra artefice, oggetto e osservatore. Nessun altro metodo estraneo al linguaggio in questione è in grado di fornire soluzioni e classificazioni definitive: un linguaggio formatosi sul senso del frammento mantiene intatta la sua inequivocabile qualità di unicità. L'artista compare in qualità di figura intermedia, un individuo che attinge qualcosa dalla verità più nascosta, al di fuori di sé come nell'intimo del proprio io: fissa l'essere e il divenire in un immagine che è da guardare, semplicemente, per rivendicare l'opera quale assoluta presenza di vita ed esaltare la spinta visionaria nella sua totalità.
VITO CAMPANELLI - MARIO STEFANI (1990)
La bella avventura di questo artista è di ricercare ed inseguire la vita che si cela e si sviluppa attraverso testimonianze e memorie che la Terra dona fin dai suoi primordi. Un'allusività profonda ad un mondo primordiale, un'antica bellezza e una gioia per questo essere finzione e sognare, per cui vi è uno scavo interiore continuo in se stessi. Le immagini di Campanelli, che spesso usa materiali molto diversi, ma che, grazie alle sue mani, non rimangono eterogenei, hanno una simbolicità che ha la sua radice nella riflessione, in un decantare continuo del suo io. La forza emotiva si manifesta nel canto di un'intensità lirica non comune che raggiunge toni molto alti, ad acuti, grazie proprio al disporsi sapiente dei colori e di ritmi formali inquietanti. Usando colori di terra naturali, egli parla della nascita dell'uomo, di momenti paleolitici, dove strati diversi rappresentano la ricerca di sedimenti interiori, La Terra nel suo magma continua a ricordarci il segno primordiale ed i grandi silenzi di epoche lontane dal pittore amate e ritrovate in uno scavo che è tensione di se stessi verso gli altri. La Madre Terra che è moralmente neutra assiste come per la sfinge leopardiana al nostro divenire.
UMBERTO DANIELE (1994)
Campanelli si allontana dai margini delle cose, per scatenare un magma che subito sfoca fino a perdere l'incandescenza del memorabile nell'estensione del sentimento. In sovrani dialoghi con il bianco, destino di ogni colore e fine di ogni luce, le cromie paiono dilatarsi sulle tormentate superfici sino a sfuggire oltre gli argini della cornice al contempo, perciò, la potenza dell'espressione volentieri si annulla, mentre si scoprendosi ospite del luogo chiuso, allusivo, di uno spazio dipinto.
Assolutamente lontano da progettati equilibri compositivi, subentra allora un introspettivo dialogo con le cose. Gli accordi cromatici vengono annullati dall'irruzione straniante di un elemento, di un quid imprevisto eppure assolutamente necessario: oggetti di memoria, giustificazione esistenziale del persistere sopito della passione.
Quest'insanabile, fruttuosa dicotomia si apparenta all'altro doppio amore per il colore, scisso nel contrasto tra la liricità del tono e il corporeo spessore della materia, e conferma la vocazione del dipinto come luogo della possibile mediazione tra i mondi separati della fisicità e della soggettività. Il luogo naturale per eccellenza.
FRANCO FABBRI (1993)
Campanelli è un artista decisamente astratto, di matrice informale, e di quella sua astrazione, strettamente connessa al “caos primordiale” ne fa l'unico e veritiero veicolo per l'interpretazione del come, perché e quando della nostra esistenza. Egli parte addirittura dal paleolitico superiore per poter affrontare quelle tematiche esistenziali, e produce opere dal grosso spessore materico in diverse combinazioni di linee e di spazi, quasi sempre dipendente da un certo ordine o equilibrio compositivo.
A volte su queste ampie tele, si possono intravvedere ipotetici orizzonti in colori che appaiono sempre attenuati, decantati, con prevalenza di beige sabbia, qua e là, “scavi” di una memoria antica e segni di indecifrabili graffiti, che lasciano intendere quanto in questo artista sia presente l'ancestrale bisogno di comunicazione umana, l'assoluta necessità di rendersi interprete di quel qualcosa per il quale è importante discutere. Campanelli ha sentito questo impulso e lo esprime impastando materia e colore, stemperandoli assieme in sequenze allusive, al fine di far affiorare le figure e le immagini in esse contenute ma, come afferma Andrea Pagnes scrivendo di Campanelli nel 1991, senza escludere l'emotività che si cela dietro la gamma cromatica dei toni e delle velature.
ORFANGO CAMPIGLI (1992)
E' chiaro che questo artista con le sue creazioni che sgorgano limpide dai suoi stati d'animo, si serva del dono artistico che possiede, non come per fermare questo falso progresso, ma semplicemente come un profondo accorato grido d'allarme, perché proprio dalle “macerie” riprenda cosapevolezza l'uomo nuovo, l'uomo del ritorno. Perchè è nell'uomo del ritorno che le epoche s'incrociano e la tradizione chiede il futuro.
Lui mi parla animatamente di quello che è l'infinito e inarrestabile potenziale dell'essere umano nella scienza e della tecnica, che deve però essere supportato dalla capacità di prevedere quanto sia compatibile con quello che siamo, senza ricadute etiche, sociali, esistenziali ecc... Perciò, si allo slancio futuristico, si alla tensione verso il nuovo, ma coi piedi di piombo e senza effetti secondari inquietanti. La sfida è restare umani.
Il messaggio che Campanelli trasmette attraverso le sue stupende immagini pittoriche, motivate dalle “Terre neutre” tende a scavare dalle memorie storiche della Terra, costruendo paesaggi come equilibrio tra uomo e ambiente, testimoniando la vita e i suoi valori. E sono messaggi che l'artista trasmette all'uomo di oggi che ha perso le sue radici e non sa neppure dove andare. Tempi stupidi e crudeli che viviamo soprattutto nel caos ambientale e delle coscienze.
Ci troviamo al bivio tra il moderno e l'antico. L'uomo moderno è l'uomo della fuga perchè fugge da se stesso e fugge sempre. Mentre l'uomo antico è l'uomo che ritorna perchè sa che solo nel senso del ritorno può esserci la riconquista di tutto ciò che è stato. Nell'uomo moderno il mito è un feticcio. Nell'uomo antico il mito si fa memoria, sacralità, rito, tempo. L'uomo del mito è anche l'uomo della giovinezza. Canta il romanticismo della giovinezza senza farne una ideologia. Resta sempre un sentimento. Ecco perchè è forte. Il mito della giovinezza è il ritorno alla conquista della memoria, della grande memoria che non abbandona e accompagna il fiume della vita.
In queste significanze e in questi sentimenti si rispecchia appieno questa pittura, la quale, nel fascino compositivo raggiunge toni ed acuti altissimi di una musicalità da sogno. Un sogno che l'artista, come ho già affermato ad altre occasioni, trascive con l'abilità delle proprie mani e la cultura del proprio sapere, usando il pennello e le altre materie sulla tela, dove esprime il suo cammino sulla Madre Terra. Il percorso di un ritorno in cui il viaggio chiede mistero e fede. Senza dimenticare e senza dimenticarsi. L'attesa vive nella speranza e l'uomo naviga tra l'attesa e la speranza.
Il futuro è aperto ma attende una risposta. Campanelli con le sue creazioni poste al nostro sguardo e alla nostra meditazione ci coinvolge alla risposta, dove, tutto è possibile ancora per l'uomo della fede.
Paolo Rizzi (1989)
Si fa largo nella nebulosa d'un colore leggero, senza peso. Indugia su certe sfumature di toni pastellati, s'inoltra nei ritmi di una forma suggestivamente allusiva, penetra all'interno di certi gangli più densi come coaguli di stelle.
E' un viaggio che ci avvicina all'ignoto. Le sensazioni sono quelle di una materia che si rarefà, si scioglie, si distilla, magari si sgrana dolcemente entro itinerari sempre inconsueti, inattesi... Così è la pittura di Campanelli: sensibile e raffinata, lontana da ogni chiasso consumistico. Un cibo per palati culturali.
L'artista dipinge fin da bambino, e ricordo sempre con piacere quando si presentò giovanissimo nella Galleria S.Vidal nel 1979 a mostrare due tele astratte. Aveva già abbandonato figure e paesaggi!
Le sue matrici stilistiche affondano nell'informale, in una direzione lirico-materica più che segnica o gestuale; quindi è vicino a Fautrier, gli “otages”, e magari a Santomaso, almeno per un certo gusto di decantazione del colore. Piace soprattutto quando arriva, nei suoi nuclei espressivi, ad imprimere una vaga allusività organica: uno stimolo alla percezione che non sia meramente ottica (edonistica) ma psichica (simbolica). Allora c'è qualcosa di arcano che si cela all'interno dell'epitelio cromatico, e solletica ancor più la nostra fantasia.
Certo, oggi irrompono di prepotenza sull'orizzonte dei mass media le violenze serializzate dell'immagine di consumo. E' un altro mondo. Campanelli preferisce il silenzio, o meglio i mezzi toni, i sussurri, quelle “nuances” di una luce chiara che si diffonde sulle screziature del marmorino, fino a toccare le parti più delicate della nostra sensibilità. Lui dice che è una sorta di “Ritorno alla Terra”, e intende con questo termine indicare un equilibrio tra l'uomo e l'ambiente naturale che lo circonda.
Sono paesaggi inventati, ma anche aderenze precise ad una fisicità sublimata dei sensi. Appunto viaggi: viaggi verso un'utopia che ci accolga serenamente, rendendoci liberi di scegliere la strada che più si confaccia alle nostre inclinazioni.
Quadri come questi di Campanelli sono fatti per sognare. Ma è un sogno ad occhi apert
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